Dal 12 luglio scorso, il giorno dell’annuncio della battaglia che l’aspettava, Mihajlovic ha preparato il Bologna dall’ospedale per interposta persona: mail, sms, streaming e qualche telefonata con il vice De Leo, quel De Leo che alla vigilia di Verona diceva: «Mihajlovic è sempre con noi». Cosa sia passato per la testa di Sansone e soci, rivedendo Mihajlovic dopo un mese e mezzo, lì con loro per davvero, non può raccontarlo il risultato. Risultato, 1 a 1, che ha detto di un Bologna forse emozionato, magari immaturo, di certo troppo poco cinico nella sua superiorità numerica durata 75 minuti e bisognoso di almeno un centrocampista sostanzioso dopo l’addio di Pulgar (arriverà Medel, ex Inter) e di un Verona, neopromosso, già tignoso come vorrebbe Juric ma per il resto carente sia in difesa (l’ingenuo Dawidowicz espulso dopo neanche un quarto d’ora regalando a Sansone il rigore del vantaggio) sia in attacco (tridente Verre-Tutino-Zaccagni, pochissima roba per la A). A guardarlo, quel risultato lì, può far sorridere l’Hellas e corrucciare il Bologna. Ma per una volta si può anche andare oltre i ragionamenti da tabellino, o da campo. La cartolina della prima giornata di serie A è Mihajlovic, in panchina mentre combatte una lotta tutta sua, un po’ come Tabarez con l’Uruguay all’ultimo mondiale di Russia (la neuropatia) o Caparros con il Siviglia nell’ultima Liga (leucemia anche lui, ora è dirigente del club spagnolo), anche perché a 50 anni, tuta e cappellino, la lotta di Mihajlovic è qualcosa che nemmeno la telecamera a più alta definizione può raccontare