Nella primavera del 1991 avevo da poco compiuto vent’anni ed ero uno studente universitario che, a parte un letto sgangherato in un appartamento avaro di comodità, non se la passava poi così male.

Era la classica stanzetta angusta di chi studia fuori casa, ma io cercavo di abbellirla con la musica.

Così, vicino ai testi di economia, c’erano anche un walkman e una pila di musicassette, che a quei tempi erano il supporto più economico per ascoltare musica.

Avevo portato anche la mia vecchia chitarra comprata per poche lire, che tenevo appoggiata al muro umido e scrostato della parete di fronte al mio letto, pronta ad essere straziata dalle mie dita inesperte.

Walkman e chitarra erano anche gli strumenti coi quali cercavo di tenere a bada i demoni che ogni tanto tornavano a bussare alla mia porta, sperando di trovarmi debole e rassegnato.

A quei tempi non c’erano social o servizi di streaming, né, nella mia zona, negozi di dischi in cui ascoltare qualche brano prima di decidere un acquisto.

Così per me l’unico modo per scoprire nuovi artisti ed allargare i miei orizzonti musicali era leggere le riviste specializzate del settore, per poi sperare di azzeccare gli acquisti.

Fu così che conobbi 620 W. Surf, disco d’esordio di Michael McDermott.

Fu amore travolgente non appena iniziò l’attacco di batteria di “A wall i must climb”, seguito da quella armonica lancinante, che taglia il vento e il cuore.

La fede, la paura, l’amore, il dolore, il dubbio, il destino, sono muri che devo scalare, cantava Michael; ma era nella frase finale che si rivelava la dolorosa verità: IO, sono un muro che devo scalare!

Così quell’amore crebbe, traccia dopo traccia, ascolto dopo ascolto, e rimane inalterato anche adesso, dopo tanti anni. Quelle canzoni furiose e tenere, schiette e commoventi, mi tennero compagnia in quei giorni tribolati e frenetici, furono come un’ancora a cui aggrapparmi quando brancolavo nel buio, o vacillavo nelle incertezze.

I brani si mostravano come un perfetto mix tra folk e rock, tra chitarre elettriche ed acustiche, tra armoniche ed una voce rock decisa e coinvolgente, il tutto a supporto di testi ironici, simbolici e pungenti, che denotavano una facilità di scrittura impressionante per un ragazzo poco più che ventenne, e lo mostravano come un artista con un immenso potenziale e dotato di una carica sensazionale e di caratteristiche peculiari.

Michael McDermott, nato e cresciuto a Chicago, deve questo debutto a Brian Koppelman, che lo ascoltò in un club a New York e lo mise subito sotto contratto. L’album non ha deluso le attese del pubblico e della critica, alte perché Koppelman era stato il fautore del debutto di Tracy Chapman. 620 W. Surf fu prodotto da Don Gehman, già al servizio di R.E.M., John Cougar Mellencamp, Bruce Hornsby e altri ancora.

Ma la differenza la fecero le canzoni, dalla già citata “A wall i must climb” passando per “Shadow of the Capitol” e “Sacred ground”, alle ballate polverose come “No. 49” e “Your silence i will always admire”, al rock stradaiolo di chiara ispirazione “springsteeniana” di “Murder in the first degree” e “Mr. Simmons”, passando per “620 W. Surf”, “Trembling hour”, “Fool’s Avenue”, “Death in the autumn air”.

Nemmeno una scheggia fuori posto, non un brano di qualità inferiore, uno standard piuttosto elevato, che per un esordio è anche una croce pesante da portarsi dietro. Un disco che resta un piccolo capolavoro di equilibrio tra musica e poesia. Una qualità altissima che Michael McDermott solo saltuariamente è riuscito a raggiungere nel prosieguo della sua carriera, ripresasi alla grande solo in tempi recenti, dopo aver combattuto e vinto alcuni demoni che lo perseguitavano.

“620 W. Surf” rimane un caposaldo per chiunque voglia intraprendere un viaggio su strade battute dal vento, in compagnia di un ragazzo dal cuore autentico e schietto, mentre il cielo continua a cambiare i suoi disegni.

Rino Bonina (With a little help from my friend Bartolo Federico).