E’ di poche ore fa la notizia che il lungometraggio di Marco Bellocchio, Il Traditore, è stato scelto dalla Commissione di Selezione istituita dall’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali) per rappresentare il nostro paese all’annuale cerimonia degli Oscar, giunta ormai alla 92esima edizione, per la categoria International Feature Film Award  per cui concorrevano altri 4 film: Martin Eden di Pietro Marcello, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, Il primo Re di Matteo Rovere e Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis.

Tuttavia non è soltanto questo che deve saltare all’occhio in un film come questo. 

Nella prima scena la didascalia recita così “4 settembre 1980. Palermo. Festa di Santa Rosalia” ed è proprio da questo momento che prende avvio la narrazione (romanzata?) della storia di Tommaso Buscetta, primo vero pentito di mafia, che si trova nella villa di Stefano Bontade insieme ai principali capi di Cosa Nostra.

Tommaso Buscetta tuttavia non è un boss, nonostante tutti lo chiamino Don Masino, è soltanto un “manovale” e il suo non schierarsi né con la mafia palermitana né con la mafia corleonese, sebbene avesse ancora contatti con Bontade e Badalamenti, fecè si che Riina decidesse di colpirlo uccidendo diversi componenti della sua famiglia. 

Bellocchio con i suoi campi lunghi, in cui non risparmia allo spettatore nessun dettaglio, vuole darci la possibilità di capire il personaggio e studiare la sua figura da vicino, pensando di creare nello spettatore una sorta di empatia che in qualche strano modo non ci fa più pensare al motivo per il quale Buscetta ha tentato il suicidio con la stricnina non appena saputo dell’estradizione dal Brasile all’Italia piuttosto che quando durante il viaggio verso il paese d’origine ha un attacco di panico. 

Lo scopo del regista, a mio avviso, non è soltanto raccontare e riportare alla luce una storia dimenticata troppo a lungo, ma è far conoscere un criminale che mettendo a rischio la sua stessa vita e quella della sua famiglia ha deciso di cominciare a smantellare un’organizzazione criminale che da troppo tempo infesta il Paese. Vuole far credere che il Maxi Processo (che ha portato alla condanna di 475 imputati) sia stato soltanto il primo di quei tanti passi fatti e che ancora è necessario fare per guarirci da questo cancro, che gli Uomini come Boris Giuliano, Falcone e Borsellino, Carlo Alberto dalla Chiesa e tutti quelli che hanno combattuto non siano soltanto dei morti ma siano pezzi di un mosaico che si concluderà con lo sradicamento definito del fenomeno mafia.

Bellocchio getta proprio dentro quell’aula bunker uno sguardo acuto e indagatore, che scruta facce, occhi, espressioni, stati d’animo, fa emergere rancori, disappunto, falsità e mezze verità, percorrendo un sentiero che va dalla voglia di rivincita ad una propensione al perdono a tratti ipocrita. 

Il regista dipinge il ritratto di Buscetta con il rispetto che si deve a figure di spicco, mentre i mafiosi chiusi nelle aule bunker vengono rappresentati in maniera ridicola e grottesca, quasi facessero di tutto per mettersi in mostra come gli animali allo zoo: per un argomento abusato dal cinema e dalla tv, Marco Bellocchio trova un’angolatura inedita e tutta sua.Questo delicato racconto ha richiesto la presenza di un attore come Pierfrancesco Favino, che non soltanto ha la bravura per rappresentare l’arroganza di un uomo che possedeva dei principi (qualunque essi siano stati), ma riesce a cambiare spesso parlata passando dal portoghese maccheronico, al siciliano e ancora all’italiano in Tribunale. Riesce a far capire al pubblico che, nonostante abbia vissuto una vita passata a commettere i crimini peggiori, Tommaso Buscetta a modo suo poteva forse definirsi un uomo d’onore.

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