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Bob Dylan si ama. 

Fatta questa premessa, possiamo procedere nel percorso attraverso l’ennesimo lavoro del poeta per antonomasia della musica. Se il 19 giugno 2020 Neil Young ci fa viaggiare nel tempo, riportandoci nel periodo in cui si impose nella scena artistica internazionale, Bob Dylan nello stesso giorno ci accompagna in nuovo futuro intriso di vecchie trame mai dimenticate. Non sono, infatti, suoni nuovi o fraseggi mai sentiti prima eppure, associati alla sua figura, prendono forme tanto diverse da chiedersi “ma è davvero lui?”. La voce ormai ha il peso della vecchiaia, non è più quella di “Blowin’ in the wind” o “Is your love in vain”. A tratti è graffiante, rude e sembra disinteressarsi completamente della melodia, va per i fatti suoi, forse per provocare la critica o semplicemente perché la testa gli ha detto di fare così.

Il tempo passa per tutti, ma alcuni riescono a reinventarsi fino al punto da prendere a sberle il tempo stesso. 

“Rough and Rowdy Ways”, riesce a stupire e ripagare l’attesa di di tutti i suoi estimatori a otto anni dall’ultimo inedito.

“Sono il primo tra pari, secondo a nessuno”.

Chi dice certe cose e riesce a non essere smentito può permettersi di fare ciò che vuole.

Si parla di tutto in questo nuovo disco, si spazia dalla Bibbia al blues, citando personaggi famosi e rievocando storie già ascoltate. Piace? Non è questa la domanda che dobbiamo porci. Riesce a colpire? Si. Muta la sua arte, mutano i suoi discorsi. “Oggi e domani e anche ieri/ I fiori stanno morendo come tutte le cose”, con queste parole inizia “I Contain Multitudes”, brano che apre l’intero album. Le sue opere sono sempre state criptiche, a tratti incomprensibili, mai banali e i nuovi testi lo confermano assolutamente. In “Crossing the Rubicon” mischia Giulio Cesare alla teologia, “Ho pregato la croce e ho baciato le ragazze e ho attraversato il Rubicone”, senza che ciò sembri minimamente azzardato, e d’altro canto, perché dovrebbe esserlo? Bob riesce sempre a spezzare gli schemi, distruggere l’ordine costituito e reinventarlo a suo piacimento. Tantomeno si preoccupa del giudizio altrui, prende la sua strada e la percorre senza chiedersi se qualcuno lo stia seguendo. Lui cammina con la sua chitarra e non si volta indietro, se non per prendere spunto dalla storia, dove ruba il nome per l’album, titolo di una vecchia canzone di Jimmie Rodgers. Dylan passa da musicista a scultore, architetto e pittore. Costruisce un nuovo Pantheon, ne orna colonne e affreschi, prende un po’ da tutti e offre, a chi vuole e senza pregare nessuno, la possibilità di entrare.

Ci si immerge volentieri in un bagno caldo di suoni alla Sinatra, passando nel blues più elettrico stile Jimmy Reed per tornare, subito dopo, alle 12 battute più classiche.

Il tono che accompagna tutti i brani è di chi sa che nel bene e nel male ha trionfato nuovamente.

Non mancano mandolini e ritmi più morbidi, come in “Mother of Muses”, dove vuole sposare Calliope e contemporaneamente celebrare i vecchi generali delle guerre ormai finite e passate. Continuerei volentieri ma il vero gusto di questo album sta nell’ascolto paziente e appassionato di ogni brano.

Dylan insegna, non produce solo arte.

A 79 anni, anziché sedersi su una poltrona e godersi il suo regno, preferisce ulteriormente stupirci e coinvolgerci in questo ennesimo passaggio della sua carriera. 

D’altronde, da chi scimmiotta, senza alcun risentimento, il premio Nobel, cosa dovremmo mai aspettarci?

Lunga vita al Re, lunga vita a Dylan.

Antonio Lo Re